07 October 2013

Il silenzio dei vivi, la fabbrica dei luoghi comuni e quelle storie che cambieranno l'estetica della frontiera



In questi quattro giorni dopo il naufragio di Lampedusa sono stato intervistato e citato dalle principali testate internazionali. Dal Corriere a l’Espresso, da Le Monde a l’Ansa, dalla Rai a Sky e tanti altri. Eppure provo un senso di tristezza. Mi sembra tutto un teatrino, in cui il pensiero egemone ammette una voce fuori dal coro per poi uscirne fuori ancora più forte. Forse, la verità è che per cambiare il racconto della frontiera non servono altri esperti. Ma servono racconti, servono storie, servono soggetti. Possibile che ancora non abbiamo visto un’intervista ai superstiti? Che ancora non abbiamo sentito le parole dei loro cari che li aspettavano a braccia aperte nelle città di mezza Europa? Possibile che non sappiamo niente del lutto che ha colpito i quartieri di Asmara per i suoi trecento figli ingoiati dal mare?

Niente, la loro voce non c’è. La catena di montaggio del giornalismo lavora troppo in fretta per prendersi i tempi dell’ascolto e del viaggio. È molto più facile riempire uno studio con un giro di telefonate, invitando politici, tecnici ed esperti in cerca di visibilità. Così i veri protagonisti della storia rimangono soltanto l’oggetto dei nostri discorsi e mai il soggetto, mai la voce narrante. Non hanno parola, non hanno nome, non hanno ragioni. E quindi non hanno dignità. A parlare per loro sono soltanto le immagini dei loro corpi stanchi e nudi al momento dello sbarco.

Ecco, io credo che fino a quando la stampa non inizierà ad operare questo cambio di prospettiva, l’approccio coloniale e razzista dell’opinione pubblica non verrà cancellato. E dopo il primo giorno di commozione, torneremo a leggere dei mercanti di carne umana, dei nuovi schiavi venduti alla tratta degli scafisti cattivi, dei milioni di poveri che assediano la fortezza pronti ad invadere il mondo civilizzato con tutto il loro carico di fame e disperazione, e delle solite proposte dei politici divisi tra chi vuole più navi militari e chi più educatamente propone di aiutarli a casa loro.

Poi tornerà il silenzio. E in quel silenzio, altre migliaia di avventurieri sfideranno di nuovo il mare. E ricomincerà tutto da capo. Ma ancora una volta non saremo in grado di ascoltare, né saremo in grado di intravedere in mezzo a quel disordine i tratti del più importante movimento di disobbedienza civile alle folli leggi sull’immigrazione e sulla mobilità della fortezza Europa.

C’è soltanto da sperare che almeno i nostri figli riusciranno a vedere. Perché se mai un giorno tornerà la pace nel Mediterraneo e se mai sarà la libera circolazione, i morti di oggi diventeranno gli eroi di domani e si scriveranno romanzi e si faranno film su di loro e sul loro coraggio. Peccato perché avremmo potuto iniziare da oggi a raccontare quelle storie, a cambiare l'estetica della frontiera, e ad evitare che migliaia di persone ancora debbano morire per farci aprire gli occhi e le frontiere.